BELLE STORIE
FRIDA
da “Riso cenere” di Silvia Parodi

Ero tornata in camera subito dopo cena, gli altri si erano persi in giro. C’era da lottare per tenere le dita ferme sui bottoni, per sfilarli dalle asole della camicia. Tolta quella, bisognava occuparsi della gonna: bottoncini minuscoli anche lì, lavoro certosino per dita contorte come le mie. Me ne liberai e la lasciai cadere a terra (la cameriera domani l’avrebbe raccolta). Mi fermai, per riposare. Da qualche giorno avevo notato che gli intervalli di tempo senza sofferenza erano sempre più brevi; sapevo che fra poco sarebbe arrivato il momento del cerotto di morfina ventiquattrore su ventiquattro. E allora, la mia mente non sarebbe più stata lucida.
Le ore del dolore erano maggiori di quelle senza dolore, e così lui aveva tutto il tempo e la calma per governare il mio cervello. Ma in quelle stesse lunghe ore, io avevo il tempo per addestrare i miei sensi a resistergli. Poche erano le azioni indispensabili: respirare; nutrire; domare; vigilare.
C’era bisogno di un mobile solido, prima di tutto, e alla portata. Perfetta la cassettiera di legno massello, cui appesi le mani e restai lì con gli occhi chiusi per non vedere la nebbia che precede lo svenimento. Sarebbe bastato qualche minuto per riprendere il controllo della testa: la sofferenza è una brutta tentazione della mente.
Vidi la lettera appoggiata alla specchiera, ora non potevo occuparmene. La presi e la sistemai sul comodino, accanto alla poltrona.
La fase successiva era nutrire. Passo passo arrivai alla porta del bagno, presi ancora un poco di riposo contro lo stipite e raggiunsi il lavandino che era un altro saldo punto di appoggio. Ansimando un po’, ma non troppo, mi aggrappai al marmo freddo, constatando con soddisfazione che tutto era sotto controllo. Aprii lo sportello accanto allo specchio, presi l’occorrente per la medicazione. Stringendo occhi e denti, tolsi il bendaggio intorno al busto come una principessa egiziana. Srotolando gli strati di garza impregnata di sangue e materia marrone, scoprivo le piaghe e le vedevo pulsare. Mi piaceva pensare la mia pelle sottile come quella delle ali di una farfalla. Ma io non ero mai stata né una farfalla né una principessa, né mai andata in Egitto: era solo la morte, che portava avanti il suo lavoro.
Nonostante le bolle nere davanti agli occhi, riuscii a ridere un altro poco di me stessa, nel pensare a Martine e a questa sua festa, allo stile Martine, alle sue instancabili manovre. Lei riusciva a ottenere, da morta, cose che noi, vivi, non eravamo capaci di ricavare. Martine era il mio contraltare: una pensava in un modo, l’altra all’opposto. Una aveva successo, l’altra no. Appena le bolle se ne andarono, versai sulle ferite il liquido rosso della soluzione antibiotica. Bisognava aspettare l’ondata prima di ghiaccio e poi di fuoco che dilagava nel mio corpo ogni volta che nutrivo le piaghe; in tutto ci volevano un paio di minuti, bastava aggrapparsi a un solido appoggio e lasciar passare il momento. Dopo, asciugai la riga di sudore che dalla fronte scendeva sul collo, mentre gemevo delle ultime scosse.
Era il momento del domare. Da quando avevo iniziato a incancrenirmi, solo una o due volte stavo per cedere, dando a quella bestia nascosta nel mio corpo quello che voleva. Ansimavo. Ma quale bestia, mi dicevo poi. Il dolore non era un ospite indesiderato, ma la grammatica di un discorso del corpo. Era sufficiente saper leggere i suoi messaggi, nei suoi modi bizzarri di esprimersi. La marcescenza era un’affascinante metamorfosi, un processo così pieno di variabili, così singolare per ciascuno; gli stimoli malefici del male toccavano nervi ogni volta diversi; le reazioni fisiche non erano mai scontate.
Cercai una benda pulita e la passai più volte intorno al busto. Presi il cotone sporco di pus e di sangue, le bende inzaccherate e ficcai tutto in un sacco, che chiusi con doppio nodo. Feci scorrere acqua dal rubinetto, aspettando che venisse fredda per riempire un bicchiere e ingoiare due pastiglie.
Quindi, arrivai al momento finale. Mi avvicinai alla poltrona, il mio giaciglio per la notte. Ci sarebbe voluto molto sforzo per sedermi, aspettavo che la pastiglia calmasse il dolore, che era stato tenuto a bada per tutta la cena, ma sapevo che dovevo sistemarmi con grande fatica e imbruttimento − il dolore ci rende così scomposti. Che gran sudore, lavoro di muscoli eapplicazioni di formule fisiche, per sedersi, e poi, ancora più complicato, raggiungere “la posizione”. Al termine di queste solitarie Keppelse Quadrille − senza musica e senza pubblico − il corpo finalmente si abbandonò ai punti d’appoggio meno dolenti.
Dunque mi concessi un poco di sosta.
Poi richiamai i sensi a raccolta per la fase del vigilare: vegliare su ogni movimento, anche involontario, del corpo; assicurarsi di calibrare il respiro su vibrazioni minime, perché un sospiro poco più intenso avrebbe spostato di qualche millimetro “la posizione”. Era una chimera, quelli come me lo sapevano bene; era la differenza tra stare bene e stare male, tra la vita e la morte. E in base a quella, anche la medicina faceva più o meno effetto. Vigilare fino al sollievo del sonno, quello era l’ultimo obiettivo; poiché il sollievo della morte non era ancora in programma.
Il silenzio nella stanza era quasi perfetto. Il ronzare del frigo bar, il frusciare leggero delle tende mosse dal soffio dell’aria della finestra socchiusa, mi cullavano. La busta avorio era ancora chiusa, sul comodino, infilata di taglio tra la sveglia e il bicchiere, la fiala di morfina e un fazzoletto ricamato di pizzo. Il buio amalgamava bene quei suoni velati e la santa chimica lavorava in me. Mi abbandonavo lenta, sentivo rilassare i muscoli e trascinare i pensieri nel sonno.
Riemersi − come se fossi stata sott’acqua tutto il tempo e all’improvviso fossi tornata in superficie −sul marciapiede che costeggiava il canale dietro casa mia, a Delft.
La neve era scesa per tutta la notte, aveva snaturato la qualità degli oggetti, modificato i volumi, accorciato la profondità e le distanze. Tutto intorno a me aveva la consistenza grumosa dei colori a olio, pennellati di fretta, imprecisi e vicini; la luce rosa e grigia tagliava la strada, svaporava sui ponticelli a schiena d’asino. L’acqua del canale era imprigionata da una lastra di ghiaccio lucida, che rifletteva quei colori sfumati.
Ancora pochi isolati e l’avrei rivista.
Camminavo senza nessun dolore. Gli scarponi alti fino alle caviglie avevano il carro armato spesso, per mordere la neve fresca. Avevo il fiatone e facevo nuvole trasparenti con la bocca. Sentivo scrocchiare i cristalli sotto le suole, lo schiocco dei rami che si spezzavano sotto il peso della neve, il frullare delle ali di un paio di uccelli che si spostavano tra un tetto e l’altro in cerca di un rifugio migliore. Dai comignoli usciva fumo grigio. Guardavo dentro le case, attraverso le tende delle finestre a ghigliottina all’altezza della strada: in tutte scoppiettava il fuoco nei camini.
Ero accaldata, nonostante la neve cadesse copiosa, in quel freddo quieto, come se la coperta gelida che ammantava tutte le cose sprigionasse un calore di altra natura.
Avevo aspettato quel momento per tanto tempo: lei era arrivata in città il giorno prima e avevamo avuto il tempo di abituarci all’idea che eravamo di nuovo così vicine.
Quante volte avevo fatto quella strada? In cinquant’anni, non me lo ricordavo più. Fin da quando ne avevo sedici o diciassette; per andare al lavoro, nella fabbrica di ceramiche di mio padre, ma anche per andare a scuola, o vedere qualcuno.
«Capolavori riconosciuti in tutto il mondo» diceva uno dei cartelloni pubblicitari all’ingresso della fabbrica di ceramiche di Delft.
Non avevo fretta. Ero uscita con molto anticipo, ma non volevo arrivare così presto, essere costretta ad aspettarla, a domandarmi se mi avrebbe dato buca. Così salii sul ponte a schiena d’asino, sopra il canale ghiacciato. Vidi il riflesso di una figura senza forma, coperta da un giaccone lungo, il cappello con pelo e i guanti. Io.
Ogni mattina per cinquant’anni avevo fatto sosta là sopra. L’immagine cambiava come cambia la luce in ogni stagione: c’era stato il riflesso di una figurina bassa con la gonna di pelle e gli stivali, i capelli con le trecce e lo zaino sulla spalla, un riflesso che veniva cancellato dalla scia delle barche, e i colori si scioglievano nell’acqua; c’era stato il riflesso di una donna alta, con i pantaloni e il caschetto biondo, una tracolla di pelle, che si allungava nelle ombre del tramonto; e ora c’era il riflesso di una donna invecchiata, sospesa sul parapetto, che guardava il suo corpo curvo ondeggiare sulla superficie dell’acqua.
Vidi un uomo che portava a mano una bicicletta, imbiancato dalla neve. Non sapevo come potesse stare in piedi, portava un cappello nero. Gli scarponi lasciarono orme azzurre e grigie sulla neve e, accanto, il solco orizzontale e continuo delle ruote. Entrambi, uomo e bicicletta, sparirono in un vicolo laterale.
Avevo ancora un po’ di tempo per osservare la neve che cadeva dalle grondaie e per annusare l’aria. La neve è neutra per natura. Mi ricordava un essere umano; nasce vergine e si impregna dei profumi e dei colori delle cose che ammanta. Ma io ero destinata a sentire per sempre qualsiasi cosa odorassi−vento tiepido di primavera, freddo glaciale d’inverno, grandi serre di fiori, bancarelle di cibo da strada nei mercati coperti, l’effluvio degli smalti, il calore dei forni da cottura del biscotto. Era la mia maledizione, ero abituata a questo.
Passò una donna con un cane che metteva il muso dentro i cumuli di neve a lato della strada e lei lo tirava via a fatica. Anche le loro impronte restarono appena poco più a lungo delle loro figure, prima di essere cancellate da altra neve che scendeva.
Ero ferma su quel ponte e pensavo che negli anni le avevo lasciate anche io, le orme, col mio andare e venire sempre nelle stesse direzioni. Prima segni di piedi veloci e incisivi sul suolo; poi con gli anni i piedi rallentavano e il solco diventava più leggero. Le mie suole dicevano, meglio delle parole sulla carta, il percorso che stava facendo la mia vita.
Ero ancora sul ponte: da lontano, attraverso la bruma e la neve, vidi una figura curva che procedeva a zig-zag. Si fermò, sistemando il cappello che gli era caduto sugli occhi, a fatica cercò qualcosa nella tasca interna del giaccone consunto, tirò fuori il suo carburante preferito, se lo portò alle labbra e la rimise veloce dentro il cappotto. Alexander. Nemmeno la bufera lo avrebbe tenuto rinchiuso nel rifugio per quelli come lui. C’era stato un tempo in cui tutti e due avevamo vent’anni, ed eravamo entrambi pieni di vita. Quando avevamo la stessa età, lui suonava la chitarra lungo il fiume e dipingeva paesaggi primitivi sotto impulsi emotivi senza filtro e senza scuola. Mi fermavo spesso a parlare di arte e di filosofia. Ogni tanto la polizia lo multava per qualcosa che non aveva fatto, per mandarlo via. Lui tornava sempre, i negozianti della zona gli davano avanzi di cibo e ospitalità nei loro retrobottega, e lui ricambiava con ritratti di una verità prodigiosa – a seconda del negoziante, a seconda dell’ospitalità. Aveva una mano magica, e un occhio acuto e sensibile, specie per individuare i negozi con i migliori avanzi di fine giornata. La signora Hettie, cento chili, diventava sotto le sue mani una tizianesca Madonna burrosa; e mister Gunther, rabbino, un glorioso David. Ragazze sussiegose diventavano ratti, con occhi rotondi e coda; signore di chiesa navigate baldracche. Ai poliziotti metteva addosso manette e mutande. Avevo un suo disegno chiuso in un libro, la mia faccia con un corpo di ortica. Alexander.
Osservai il suo oscillare, era imbiancato come uno di quegli alberi spogli. La sua arte era probabilmente finita a bruciare in uno dei cassonetti da cui si era cibato per tutti quegli anni; le altezze dei suoi discorsi nei canali di scolo, col vomito suo e degli altri ubriaconi che ogni tanto fuggivano dal centro di carità.
Quando avevamo la stessa età, lui e io avevamo tirato su castelli magnifici. Poi io ero cresciuta e lui invecchiato solamente. Ma ricordo che diceva che avevo talento. Non credo che fosse già un ubriacone, quando lo diceva. Martine aveva riso della mia fiducia in tal critico, per lei eccellere nelle arti figurative era possedere il dio minore dei talenti. Martine diceva anche che per diventare una pittrice da strada come Alexander, innanzitutto, mi mancava la strada. Io non la possedevo dentro, come il mio maestro. Avevo la mia casa a fetta di torta e il mio lavoro nelle ceramiche. Per dimostrarle che si sbagliava, a trent’anni presi tutte le vacanze che mi spettavano in un anno e mi trasferii a Stoccolma, dove dipinsi cose brutte per un po’ di tempo, dormendo nelle comuni di amici di amici. Non avevo trovato la strada, ma una brutta intossicazione alimentare.
Un raggio di luce penetrò il cielo di latte, risucchiò i fiocchi di neve. L’aria bagnata e tersa sembrò vibrare. Alexander passò sul marciapiede senza alzare lo sguardo. Dalla mia posizione potei osservarlo bene: un vecchio instabile sulle gambe, smarrito. Aspettai che passasse e sparisse nel retro del minimarket pakistano, per rovistare nella spazzatura – il cambiamento sociale era evidente nei nuovi tipi di rifiuti e avrei dovuto discuterne con lui, un giorno che fosse stato sobrio, se avessimo avuto la possibilità di vivere fino a quel giorno, appunto.
Quando non lo vidi più, cercai le sue orme sul marciapiede; non ce n’era traccia.
Per cinquant’anni restavo ferma sul ponte qualche minuto, per trovare la voglia di andare a fare il mio dovere. Infondo ai pensieri che mi facevano staccare da quella ringhiera di legno, c’era sempre Martine.
Mi mossi. Scesi piano per non scivolare, aggrappandomi al parapetto, e mi incamminai lungo il viale, calcando leimpronte lasciate da altri.
Passai davanti alla caffetteria, dove ogni mattina ordinavo un caffè lungo e una ciambella. Passai davanti al negozio di fiori, con la vetrina stipata di piante ornamentali e nastri e vasi decorati. Passai accanto all’agenzia immobiliare; per un sacco di anni, quel buco aveva ospitato una sartoria. La ragazza, la sarta, passava gran parte del tempo sulla porta a fumare e osservare il passaggio. Una volta all’anno, mia madre e io la disturbavamo per farci fare i vestiti su misura. Me la ricordo con il metro attorno al collo e gli spilli puntati sul petto, un petto alto e sodo, e i capelli raccolti; me lo ricordo il suo profumo che mi restava addosso per ore dopo che eravamo uscite dal laboratorio, e pensavo che anche papà doveva farsi fare i vestiti su misura, quando tornava a casa con quello stesso profumo tra le mani e i capelli, ma non mi spiegavo come mai lui, a differenza nostra, i vestiti se li faceva fare così spesso. Lei portava un rossetto rosso con cui si fece truccare anche da cadavere. Quel colore particolare lo ritrovavo sulle camicie di papà, quando aiutavo mia madre col bucato. Era ormai vecchia e sfiorita, quando volli presentarla a Martine, e le dissi di immaginare la donna come era un tempo: una pianta grassa, setosa, con spine più regali degli stessi fiori. Martine cancellò il mio fardello di bambina dicendo che gli uomini amano pungersi, anche se temono il dolore.
Non parlai mai più della sarta, e la dimenticai. Ma adesso tornava tutto a galla. Pensai che la presenza di Martine in città stanava i ricordi dimenticati; anche per questo mi era mancata così tanto. Era stata il cardine della mia giovinezza e la memoria della mia vecchiaia; per me esisteva da sempre, anche se l’avevo conosciuta quando avevo diciassette anni, mentre ero in vacanza con i miei genitori in Provenza, e lei aveva appena trasformato la casa di famiglia in un albergo. Da allora ogni cosa che feci per me, la feci per poterla condividere con lei: Martine era il termometro della mia vita e il mio termine di confronto col mondo.
Una volta, per vederla, la bloccai in aeroporto ad Amsterdam; Martine tornava dall’Oriente, io finsi di rientrare dalla Spagna. Ci eravamo viste in una sala d’attesa, eravamo rimaste sedute in una tavola calda per più di tre ore, parlando di cosa avremmo potuto fare dopo le ultime esperienze. Le mie erano inventate, ma lei non ci faceva mai caso. Non esisteva un’altra persona che mi capiva così, e che alzava la mia temperatura; non potevo vivere senza raccontarle qualunque dettaglio di quello che avevo pensato di fare. Coi suoi occhi dava forma a quello che per me era solo un pensiero, e lo faceva diventare vero.
Non brillavo di iniziativa, ma la fortuna aveva sostituito la mia poca intraprendenza, quella volta dell’incontro in aeroporto. La fabbrica dove avevamo lavorato prima mio padre e poi io, aveva chiuso, e parte della produzione si era trasferita in Asia. Da disoccupata viene più facile far finta di cambiare vita. Dopo aver bevuto decine di caffè e aver visto sfilare passeggeri di ogni parte del mondo, andammo insieme alla biglietteria e acquistai un volo per Nizza. Restai con lei in Francia e poi, quando si sposò, la seguii in Italia. Furono i momenti più felici, per me − quasi gli unici.
Lasciai per l’ennesima volta la mia casa a fetta di torta, in cui avevo vissuto da bambina e poi da ragazza e poi da adulta, e infine da vecchia. Fetta di torta spartita tra molti inquilini, all’inizio: i miei genitori e la sorella di mia madre e io neonata. Poi c’era stato di più da mangiare, per sempre meno persone; solo i miei genitori e io; poi ci siamo saziate mia madre e io. Poi le briciole sono rimaste tutte mie.
Camminai fino alla fine del viale. Arrivai sulla piazza, completamente sommersa dalla neve. Le facciate delle case a graticcio riverberavano nella luce lattiginosa, il silenzio irreale la faceva sembrare enorme.
Era il nostro destino incontrarci in qualche posto affollato, per cambiare la mia esistenza dal profondo. In mezzo a un mare di estranei che facevano da sfondo, nel mio intimo scoppiava la rivoluzione. E dopo l’aeroporto, ci fu quell’altra volta, quando avevo attraversato di corsa la piazza, come stavo facendo adesso, tanti anni più tardi. Era quella volta in cui il mio corpo non era di legno e non si spezzava come un ramo. La mia pelle teneva ancora fermi muscoli e ossa, e non si squarciava. Tutto era intero e contenuto, riuscivo a dominare anche il cuore che si voleva espandere dentro. Martine era tornata a Delft dopo un anno, finalmente vedova. Voleva parlarmi, e in tutto quel tempo non ci eravamo mai perse nonostante la lontananza. Avevo annullato ogni impegno e preso ferie dal lavoro. Mi ero preparata a quel momento immaginando le cose come se fossero già successe. Avevo sistemato la camera e il mio laboratorio segreto, perché ero pronta per farla entrare nel mio regno. Non mi sarei più vergognata di mostrare la mia arte, perché rappresentava la mia esistenza; anzi era più vera dell’esistenza stessa. Sapere che le proprie mani sono in grado di smuovere masse di emozioni, mescolando colori, scolpendo forme su carta che fino a poco prima erano solo pensiero, mi faceva sentire potente. Senza esagerare, mi faceva sentire Dio.
Ero ferma in quella piazza, ferma come lo ero stata nello stesso punto tanti anni prima, e ferma come ero stata in aeroporto quando eravamo due giovani, milioni di anni fa.
Tutte e tre le volte, l’avevo individuata da lontano, perché lei era sempre stata inconfondibile. Era piccola, mobilissima. Se le due volte precedenti aveva indossato pantaloni chiari larghi, o un vestito leggero, un foulard al collo, se aveva avuto i capelli lunghi raccolti o li aveva avuti corti e spettinati, e se oggiera una piccola ombra intabarrata in un cappotto di cammello − anche a cinquanta metri di distanza; a venti o trent’anni di distanza − i suoi occhi immutati sarebbero bastati per riconoscerla anche se avessi perso la memoria. La sua immagine, pensata per lungo tempo, si sovrapponeva a lei e le mie mani si erano strette una dentro l’altra. Mi ero fermata; lei guardava da un’altra parte, io volevo spiarla così per un poco.
Ero immobile, anche questa volta. I suoi occhi azzurri erano incastonati in tutto quel bianco, e guardavano intorno. La osservai, come l’avevo osservata in passato, con il fiato corto e volute di fumo che uscivano dalla mia bocca. Non ero più né svelta né elastica, e forse ero persino un po’ più bassa di allora, visto che il mio corpo era falciato dalla vecchiaia. Martine non era più né giovane né sportiva, e io non mi aspettavo più niente da lei.
Questa volta, però, era tutto diverso. Sentivo di essere più indulgente con lei e più benevola con me. Anche se non avevo mai perdonato – l’essere umano non perdona mai davvero, forse solo il Signore e il Diavolo sono capaci di farlo – accettavo ormai quasi tutto. Avevo imparato a spostare il cursore che definisce l’equilibrio della bilancia. La mia infelicità non pendeva dal lato opposto alla felicità di qualcun altro. Era andata così. Ero forse più saggia perché vedevo la fine della vita più vicina e più chiara di quanto vedessi il suo inizio. La mia esistenza era come una delle mie sculture in ceramica: prima ancora di crearle ambivo alla perfezione di un’idea, e via via forgiavo un oggettoche, però, prendeva una forma diversa da come l’avevo pensato all’inizio. Una volta finito, come avrei potuto rinnegarlo, solo perché non corrispondeva a quell’idea iniziale? Che bisogno c’era, oggi, per me, di stare bene, essere felice, ottenere quello che avevo sempre desiderato? Il mio lavoro era compiuto, perfetto così come i mille sentieri che aveva percorso lo avevano plasmato.
La volta prima, nella stessa piazza di oggi, ma con il cielo screziato delle nuvole tonde di primavera, fu il momento limite, il meridiano che segna l’esistenza di ognuno. Arriva all’improvviso, presto o tardi per ogni persona, come il menarca. Dalla nascita a quella linea il tempo va avanti, e la testa con lui; superata quella, è come azionare un conto alla rovescia, e la testa con lui.
Quell’altra volta, prima di oggi, Martine mi era saltata al collo e non aveva aspettato di ricevere un bacio, per dirmi che voleva condividere con me la sua gioia. Mi aveva preso la mano, mi aveva portata in giro a vuoto, si era fermata nel negozio di caramelle che amava tanto, mi aveva fatto fare chilometri alla cieca, per respirare l’aria di Delft che solo ora sentiva quanto le fosse mancata. Eravamo arrivate sul canale, mi aveva fatto scendere sulla banchina per ormeggiare una barca, mi aveva guardata in faccia solo allora – il sole le colpiva le pupille che sembravano un incendio – e mi aveva sorriso. Le avevo preso le mani.
“Sai quando capisci le cose all’improvviso? Quando pensi, non è possibile, non io, e invece poi è tutto così palese? Sai quando devi arrenderti all’evidenza, perché tanto lottare non serve? Io non mi sono mai fatta problemi, lo sai bene, non mi è mai importato nulla di quello che pensa la gente”.
Mi tremavano le mani, ma preferivo restare in silenzio, per non rompere quel filo di pensiero che sembrava così fragile. Stavo attenta che non ci fossero distrazioni esterne e remavo senza quasi respirare: con un occhio guardavo il canale, i movimenti della barca che filava liscia a pelo d’acqua, con l’altro lei.
“Ce ne ho messo, lo so. Sai bene come sono fatta”.
Certo che sapevo come era fatta: quanto mi era toccato aspettare? Finalmente dava ragione a quelle sue ragioni che non le erano chiare.
“Ma poi … poi chi se ne frega di quello che pensa la gente. Chi se ne frega del mio lavoro”.
Mi afferrò le mani, che avevo abbandonato sulle gambe. Si era fatta più vicina, sentii la pancia contrarsi, mentre le gambe erano inerti, la bocca semiaperta, molle. Chiudendo gli occhi, respirai per la prima volta un odore diverso da quello degli smalti, il suo odore, il mio.
“Lui è un mio dipendente. Non è italiano e non ha ancora la cittadinanza. Ha una giovane compagna, straniera anche lei. Hanno avuto una bambina e sono spiantati e senza futuro, tutti e tre. Alla ragazza importa solo far soldi e liberarsi della figlia, a lui frega della figlia poco più della madre”.
Una nuvola nera aveva oscurato il cielo. Avevo riaperto gli occhi, lei non era più lei. “Non fare quella faccia. Abbiamo raggiunto un accordo”.
Mi era sembrato che ci fosse un’altra donna, seduta sulla barca di fronte a me. Oppure di non essere io, lì, a remare, ma che lei stesse parlando con una persona che non si chiamava Frida, e che stesse parlando di una persona che non si chiamava Martine.Stavo remando e c’era una donna lì di fronte che mi aveva lasciato le mani e guardava la scia della barca, e sorrideva a quella scia come se le avesse appena ricordato qualcosa di bello. Avevo davanti, nella luce evanescente, una donna che mi aveva guardata con una serenità mai avuta prima e, con la noncuranza della follia, mi diceva che lui era la persona più sbagliata, e la persona che non avrebbe mai cercato ma, proprio per questo, quella che aveva bisogno di trovare.
Li pagò entrambi: la giovaneper togliersi di mezzo, lasciarle uomo e bambina neonata, e lui per tenerlo legato a sé. Non aveva mai provato una cosa simile; non si era mai sentita in quel modo: pensava che ogni persona al mondo, tra i bisogni primari, avesse il diritto di godere di uno sconvolgimento emotivo e totale.
La bambina l’ho chiamata Paola, disse.
Ho un vago ricordo di quello che feci dopo, se avevo fatto qualche domanda o se ero rimasta mutaper affogare i pensieri.
Da allora tutto si era messo a girare a doppia velocità. Lei era ripartita il giorno dopo, mi aveva fatto giurare di raggiungerla appena potevo; l’avevo fatto, sperando di constatare di persona che quel fuoco si sarebbe spento in fretta. Avevo vissuto nel lusso della sua casa, con un ragazzo che lei chiamava amore senza vergognarsene, con una bambina oscura e arrabbiata di circa sette anni, e una poppante che faceva cacca e pipì sui pavimenti come un cane. Era durata di più la mia seconda aspettativa dal lavoro che la loro storia d’amore.
Avevo tardato il mio ritorno a casa perché avevo paura che Martine avrebbe fatto follie, ma mi sbagliavo. Lei era incredibilmente serena, per essere stata sedotta e abbandonata. Non faceva che ripetere che non sarebbe potuta andare diversamente, e che il breve passaggio nella sua vita di quell’uomo era stato la cosa più preziosa che potesse capitarle, che avrebbe addirittura accettato di morire adesso.
Se avevo retto male il colpo che mi aveva inflitto su quel canale, questa sua accettazione quasi mistica mi distruggeva; sembrava un pianeta lontanissimo, come se non le importasse altro che bearsi di quello spazio sovrannaturale in cui quella storia l’aveva portata. Volevo che scendesse sulla terra, tra noi, che mi vedesse di nuovo.
Sarebbe stato naturale odiarla, come sarebbe opportuno odiare le proprie ossessioni. Ma il problema era che non ci riuscivo, e allora provai a odiare chi le stava intorno, chi godeva del suo affetto e non ne era ossessionato, e sarebbe sopravvissuto lo stesso, se un giorno ne fosse stato privato.
Erano le due del mattino. Ero rimasta nella stessa posizione, mi ero abbandonata alle spire del sonno, coadiuvata dalle medicine e dalla spossatezza. Aprii gli occhi, un coltello mi trapassava le viscere. Bagnata fradicia, superai onde lunghe di dolore e la quasi totale perdita di sensi. Riuscii a raggiungere la siringa, già pronta, appoggiata sul tavolino accanto alla poltrona, e con le mani tremanti mi bucai. Il nepente passò lento dalla siringa alla vena. Respirai come avevo imparato a fare, e attesi. Poi lentamente il freddo del male lasciò il posto al tepore del sollievo e mi quietai: recuperando coscienza della stanza e delle sue forme, vidi le ombre modellate dalla luce della lampada. Presi la busta, le mie dita erano così contorte che faticai a spiegare la carta. La busta cadde, la pagina fitta tremava appena, sorretta dalle mie mani.
Cara Frida,
andrò in un posto, credo, dove immagino tu stia sognando di raggiungermi al più presto. Non saprei dire, adesso, se ne vale la pena. Ho voluto che anche tu fossi presente alla mia festa, perché in qualche modo fai parte della famiglia. Ho una famiglia assurda e spesso insopportabile, un mosaico di note stonate. Eppure sono quello che mi resta e il frutto di quello che ho costruito. Ci sono cose della mia esistenza che ho compreso solo adesso, e cose che non mi chiedo neanche più perché mi sono capitate.
Ti ho voluta qui, affinché tu non possa rimpiangere di non averlo mai compiuto, quel famoso viaggio per riallacciare la nostra amicizia.
Non c’era niente che desiderassi di più di riavere il nostro rapporto, riavere te, lo sai bene. Adesso so che con la parte di te, quella in luce, nulla si è mai interrotto.
Per ora basta così. Non aggiungerò altro, so come soffri e non intendo essere la causa di altro male. Pensa alla mia presenza, resisti e lotta.
Tornerò ancora, lo sai.
Ci fu di nuovo il buio, dopo, e non so per quanto a lungo. Ma al termine riemersi ancora− come se fossi stata sott’acqua tutto il tempo e all’improvviso fossi tornata in superficie −sul marciapiede che costeggiava il canale dietro casa mia, a Delft. Avevo la faccia bagnata dalle lacrime, eppure non ero sicura di aver pianto.
Ero immobile, in mezzo alla neve, non sentivo freddo e non sentivo rumori. Lei dall’altra parte, coi capelli raccolti in una treccia, stretta nel cappotto. Eravamo vecchie. Ma dentro di noi sempre le stesse ragazze passionali e scontrose, amiche e compagne. Lei alzò il braccio, io guardai a destra e a sinistra prima di attraversare, anche se non c’era neanche un’auto in giro, in quella coltre bianca. Di lì a poco, ci sarebbe stato l’ultimo nostro incontro.
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